L’oro del Reno
L'”Oro del Reno” si presenta con una struttura molto particolare, vista l’abolizione dell’usuale divisione in atti. L’opera è ripartita in quattro scene: il fondo del fiume Reno, una regione solitaria fra alte montagne, caverne abissali e, nuovamente, la regione montana.
Per quanto riguarda i personaggi da un lato trovamo le figlie del Reno, figlie del mondo puro dell’acqua, e quindi personaggi connotati positivamente (sono tre, a rispetto della numenorogia magica), dall’altro il nano Alberico, re dei Nibelunghi, esponente del demoniaco mondo sotterraneo, quindi personaggio sovraccaricato negativamente. Il loro confronto si dipana intorno a forti figure tematiche: l’amore, nella fattispecie inteso come desiderio istintivo di Alberico; la frode, perpetrata dal nano, che inganna le figlie del Reno e ruba l’oro; la maledizione, con cui lo stesso nano rinuncia all’amore per poter conquistare il tesoro e dominare il mondo. Sono figure tematiche proprie dei più alti generi letterari antichi, poemi e tragedie.
La prima scena delinea infatti una classica situazione drammatica di partenza: si instaura un conflitto di personaggi in quanto incarnazione di valori positivi o negativi, destinati a informare di sé l’intera tetralogia.
La seconda scena s’incentra sullo scontro fra dei e giganti. La figura dominante è quella della frode, dal momento che il re degli dei non intende rispettare il patto ed attende i consigli astuti di Loge. Questi è una specie di semidio, signore del fuoco, con una sua natura ambigua, insieme creativa e distruttiva.
La terza scena, nelle viscere della terra, descrive da un lato l’esercizio maligno e violento del potere da parte di Alberico sui Nibelunghi, che devono ammassare l’oro per soddisfare la sua sete di ricchezza, dall’altro la frode di Loge. Sollecitato dale virtú magiche dell’elmo che gli consente di rendersi invisibile o trasformarsi, il nano cade nel tranello: si muta in un rospo (il disgustoso animale cui somiglia per la bruttezza fisica e l’abiezione morale) ed è fatto prigioniero.
Nell’ultima capitale scena Alberico è costretto a consegnare tutti i suoi tesori, perdendo ogni potere. Ed allora esce una maledizione terribile, che amplifica il tema giá iniziato con la precedente maledizione dell’amore: nella lotta infinita per la conquista ed il mantenimento del potere il nano profetizza come sola vincitrice la morte, intesa come annientamento totale, distruzione assoluta. Viene qui enunciato il principio filosofico della fine inevitabile di tutto “ALLES WAS IST, ENDER” (tutto ció che esiste, finisce). La maledizione dell’anello infatti produce subito un’orribile violenza tra i giganti.
Il tema essenziale della tetralogia, come giá nella letteratura piú antica della civiltá occidentale, appare il conflitto tra potere e amore, che genera nel mondo la presenza di un male inarrestabile e incoercibile. La differenza tra antico e moderno andrá poi ricercata nel senso oscuro di perdita e dissolvimento che accompagna le seguenze simboliche delle altre giornate della tetralogia.
La Walkiria
Walkiria Anche per “La Walkiria” Wagner riutilizza come fonte l’epica nordica della “Wolsungsaga” e dell'”Edda” antica e moderna. La scelta del mito consente al drammaturgo di liberarsi delle convenzioni del teatro contemporaneo, che ormai tendeva a forme di verosimiglianza realistica, e di ripristinare piuttosto un’aurea sacrale per la scena, con protagonisti di alto rango e di animo superiore, coinvolti in grandiosi conflitti.
Non a caso nella “Walkiria” si possono rintracciare anche elementi propri dell’epica mediterranea: la stessa protagonista, in quanto vergine guerriera, ha evidenti somiglianze con la figura dell’amazzone, il fatto che Wotan debba sottostare a costrizioni inaggirabili rimanda al rapporto degli dei greci col potere dominante del fato. Altra analogia si ravvisa nel sostegno o nella persecuzione che un dio può esercitare contro esponenti di stirpi subordinate.
E’ da sottolineare la importanza della spada, che, infissa da Wotan nel frassino della casa di Hunding, può essere estratta solo dall’eroe piú forte e predestinato, cioè da Siegmund. La spada è per tutta l’epica il corredo essenziale dell’eroe combattente: non puó essere una qualsiasi arma di comune mortale, ma strumento dai poteri magici, adeguato all’eccezionalitá dell’eroe e delle sue imprese.
E’ recuperata anche la tecnica tragica del racconto, con il personaggio che si diffonde in un discorso di illustrazione sugli antefatti della vicenda, ma soprattutto di riflessione sul senso piú profondo degli eventi in corso. Siegmund introduce ben due rievocazioni sul suo passato infelice di personaggio ramingo e perseguitato; piú importante ancora, e traboccante di drammaticitá, il racconto di Wotan, costretto ad ammettere le proprie responsabilitá. La sua ambizione di potenza, per la conquista dell’oro del Reno, ha innescato un processo nefasto, con inganni e tradimenti, destinati ad esiti letali per gli stessi dei, che ormai devono sperare solo nella nuova stirpe di eroi puri.
Da notare l’articolato trattamento dei personaggi. Siegmund e Sieglinde sono delineati con una psicologia elementare, piú vicina alla maniera antica; l’uno è il tipico eroe senza macchia e senza paura, l’altra non va al di lá del ruolo patetico attribuito al personaggio femminile. Di ben altro spessore sono i due veri protagonisti, Wotan e Brunhilde, che campeggiano nel II e III atto, l’uno calato in complesse meditazioni, l’altra volitiva e generosa fino al sacrificio.
La catastrofe della Walkiria è collocata nel secondo finale, quando, nel ribollire di una natura tempestosa, il ritmo della vicenda subisce una repentina accelerazione, con il convergere di tutti i personaggi principali, lo scontro dei due eroi e l’intervento di Wotan, proprio come Deus ex machina, che decide l’esito del duello.
Proprio in questo possiamo rilevare la differenza con la conclusione canonica della tragedia classica caratterizzata da uno scioglimento violento sul piano della azione. Come detto sopra questo avviene nel secondo finale, mentre il primo è dato da un denso dialogo tra padre e figlia che tocca questioni ultime quali il futuro degli dei e degli eroi ed in più rileva un fortissimo sentimento affettivo (qui Wotan bacia la figlia sugli occhi, mentre nell’antica saga la pungeva con una spina sugli occhi per farla addormentare).
Si veda la presenza fascinosa della natura, descritta esplicitamente nelle didascalie ed allusa palesemente dalla musica come proiezione dei sentimenti dei personaggi: i momenti tempestosi traducono le tensioni emotive in atto, il primaverile idillio notturno del finale primo asseconda la nascita di una irresistibile attrazione tra Siegmund e Sieglinde.
Sigfrido il conquistatore
Drago Rispetto alle altre operedella tetralogia, il testo del “Siegfried” è dominato dal ricorso massiccio all’immaginario mitologico e da uno scioglimento positivo. Il “Siegfried” vede un’evoluzione felice per il protagonista, che sul piano dell’azione e dell’amore conquista vittorie esaltanti: uccide il drago Fafner ed ottiene Brunnhilde.
Anche in questo caso si possono indicare le fonti precise per la vicenda in generale e per i singoli episodi (cioè l’epica soprattutto dell’Edda antica, e poi dell’Edda nuova e della Wolsungasaga), ma sorprende la frequenza di episodi, scenari, immagini, che appartengono al repertorio universale del mito solare dell’eroe, e più in particolare della sua giovinezza e formazione.
Siegfried appare dotato di superiori qualità fisiche e di un carattere schietto e semplice, dove la purezza morale è inficiata da una pericolosa inesperienza. Non a caso gli sta vicino Mime, che gli è specularmente opposto: un nano grottesco, la cui bruttezza fisica è parallela alla deformità morale. Nel primo atto due sono gli elementi mitologici più vistosi: la ricerca delle origini e la forgiatura della spada.
Nel mito dell’eroe la nascita appare come eccezionale e misteriosa: sovente rimane orfano, talora abbandonato e raccolto per avventura da qualche personaggio, cresce poi preparandosi a un’esistenza diversa, con indizi premonitori di un destino straordinario.
Nel primo atto questo è il tema conduttore, che sfocia nell’altisonante finale della forgiatura della spada. L’arma che Siegfried ha invano richiesto con insistenza a Mime, sarà quella che egli stesso riuscirà a plasmarsi, ricomponendo i frammenti di quella spezzata a suo padre: il giovane comincia quindi a scoprire la sua provenienza e insieme il mezzo per attingere all’eroismo. Da notare la frequenza simbolica degli episodi: Siegfried manifesta la sua forza con la cattura dell’orso, narra di essersi mirato nello specchio d’acqua come allegoria della ricerca di sé, infine è in grado di costruirsi lo strumento decisivo. Nel mito infatti l’arma appare attributo essenziale dell’eroe, che è tale solo in quanto dedito a imprese sublimi: nei poemi classici la descrizione delle armi dell’eroe, forgiate per di più dagli stessi dei, quindi con poteri magici, occupava spazi canonicamente significativi.
L’immagine conclusiva di Siegfried, che brandisce in alto Notung, è l’emblema di un eroe finalmente investito dalla sua suprema visione.
Il secondo atto è incentrato sulla lotta col drago. Wotan ha rivelato a Mime che solo un eroe senza paura può sconfiggere il mostro Fafner, padrone dell’Oro del Reno.
Il duello con il drago appare in tutte le mitologie, da quella greca a quella cristiana, e sta indicare lo scontro fra la dismisura propria del mostro che incute una paura ancestrale e la forza coraggiosa e razionale dell’eroe, che affronta un ostacolo insormontabile per l’uomo comune, conquistando un trionfo fondamentale per lui, ma anche per la comunità o la stirpe di appartenenza. Il contatto con il sangue del drago conferisce all’eroe un dono miracoloso: la capacità immediata di comprendere rettamente tutto ciò che gli comunica il mondo circostante, sia il linguaggio della natura, e quindi la voce del volatile che lo consiglia e lo guida verso Brunnhilde, sia la demistificazione della menzogna, e quindi le intenzioni maligne di Mime, che vorrebbe ingannarlo ma viene invece inteso secondo verità e quindi ucciso.
Anche la parte grottesca rappresentata dalla figura di Mime non è assente dall’epica tradizionale, perchè comunque indica la bassezza di cui l’eroe è esente, funge insomma da contrasto.
All’eroe tocca il premio per l’impresa compiuta, che sarà la bella addormentatta, cioè Brunnhilde. E anche nell’ultimo atto abbonda la simbologia eroica: prima Siegfried deve superarae l’ultimo ostacolo, più rituale che sostanziale, dall’incontro con il dio, cioè Wotan, che cede il passo al giovane cui egli stesso ha affidato la rigenerazione globale, sanzionando così una trasmissione di potere; poi il protagonista sale verso l’alto e oltrepassa la cortina di fuoco, in un percorso anche allegorico, interpretabile secondo l’idea di un’elevazione spirituale del soggetto. E gli stessi gesti di sciogliere le armi che rinserrano il corpo di Brunnhilde, e di svegliarla con il bacio, acquistano un valore pregnante, visto che Siegfried aveva prima brandito la spada Notung per incarnare il ruolo dell’eroe e ora toglie le armi di difesa alla Walkiria per eliminare ogni separazione e consentirle la rinascita come donna. Di fronte alla donna l’eroe viene seguito nella trepidante scoperta di qualcosa di sconosciuto: quell’elemento femminile così misterioso da suscitare persino una paura mai provata, neppure davanti al drago; una paura nel significato positivo di sensazione profonda, per una novità perturbante che prende totalmente il soggetto e scuote i meandri più reconditi dell’interiorità.
L’amore è visto da Wagner come una passione assoluta, come perdita di sé, annegamento nel gorgo di un’unione che travolge ogni limite; il finale dell’opera è infatti positivo, con la celebrazione del trionfo dell’amore, ma l’ultima parola cantata da Siegfried è “Tod”, cioè morte.
Da ricordare la presenza di Wotan, che risponde all’archetipo del vecchio saggio, ma viene strumentalizzato da Wagner per altri più sottili discorsi: gli enigmi e le sentenze, le meditazioni sul destino, il dialogo filosofico con la madre terra Erda, in generale il suo linguaggio criptico, fanno teatralmente del dio padre il portavoce più autentico dei significati profondi ed inquitanti dell’opera, perchè, anche in una giornata così solare, deve trapelare la componente problematica, che è il vero marchio di quella riattualizzazione critica del mito operata da Wagner nel tetralogia.
Il crepuscolo degli dei
Per il libretto dell’ultima giornata della Tetralogia Wagner ricorre alle già sfruttate fonti mitologiche dell'”Edda” antica e dell'”Edda” nuova, e in più ancora al “Nibelungenlied”, e anche in parte alla “Volsungasaga”. L’operazione è complessa, dal momento che il materiale di questi miti diversi è rielaborato più o meno liberamente, con spostamenti e contaminazioni in vista di quel di più di investimento simbolico che preme maggiormente all’artista e permette una ridondante polisemia secondo i vari livelli di fruizione tra cui si può muovere lo spettatore.
Dal punto di vista teatrale il “Crepuscolo” presenta un impianto decisamente più drammatico delle opere anteriori. Qui abbiamo sette personaggi fra maggiori e minori, senza contare le tre Norne e le tre Figlie del Reno, e la presenza anche del coro, prima assente. Si assiste ad una sequenza di azioni forti, con scene talvolta di crescente tensione. In realtà domina sempre la significazione simbolica secondo la concezione wagneriana dell’opera totale, che si impernia su configurazioni variegate, su rimandi ambigui e raddoppiamenti, di pregnante allusività.
Nonostante i tentativi di Wotan di ribaltare un fato inesorabile, l’empia sottrazione dell’oro del Reno ha messo in moto, come aveva previsto la terribile maledizione di Alberich nell'”Oro”, una catena di disgrazie sempre più luttuose, provocate dalla dissennata brama di potere, che ha contagiato dei e semidei, innocenti e colpevoli, tutti impossibilitati a spezzare una spirale di colpe che porta alla rovina totale.
Neppure Siegfried, il puro eroe solare messo in campo da Wotan, può salvare la situazione: è riuscito a sconfiggere il drago, ma non a sconfiggere al male che lo investe nella sua negativa discesa verso gli uomini. Lo scioglimento catastrofico dell’opera dipende da un filtro, cioè da una magia: dal filtro versatogli da Gutrune su suggerimento di Hagen, che condanna all’oblio dell’amata Walkiria. Hagen, che tesse la tela malvagia, è l’antitesi speculare di Siegfried, in quanto figlio di Alberich, fratellastro di Gunther e Gutrune.
Il filtro è l’emblema della caduta, dal momento che porta l’inconsapevole Siegfried, l’ingenuo e disinteressato eroe a compiere tradimenti e prepotenze nei confronti di Brunnhilde. Siamo di fronte a un peculiare nodo tragico, rintracciabile in tanto teatro, antico e moderno: l’eroe, prima del tutto innocente, è invischiato in un processo perverso che lo coinvolge nel male, facendogli pagare un prezzo esorbitante.
La morte di Siegfried non comporta la vittoria del male, dal momento che i personaggi negativi sono tutti puniti. Ai due fratelli, esponenti di un genere umano segnato dalla pochezza, non viene neanche lasciato spazio: Gunther è ucciso sbrigativamente da Hagen e Gutrune si lamenta pateticamente in un angolo. Il silenzio è la condanna maggiore inflitta da un autore teatrale ai suoi meno amati personaggi. Neppure Hagen riesce ad ottenere ciò per cui ha tanto cospirato: l’anello ritorna anzi positivamente dove era stato rubato, cioè presso le Figlie del Reno, e le acque di questo, che sommergono la scena del gran finale cosmico, giustamente lo trascinano in una morte ingloriosa.
L’apocalittica conclusione, con Brunnhilde protagonista, non solo appare come un’esaltazione del valore eccezionale dell’eroe, ma si risolve in una sublime liturgia sacrificale: il fuoco della pira sale verso il cielo, bruciando anche il Walhalla, per una distruzione presentata esplicitamente come una purificazione e redenzione, secondo un’idea di cerimonia teatrale quasi religiosa, come nei riti e nei miti di tante civiltà del passato.